IL VERBO SI FECE SCARNO © Daniela Tuscano

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                                             IL VERBO SI FECE SCARNO
Detesto l'esibizione di bambini laceri, denutriti, mutilati per suscitare un rapido e ipocrita pietismo, buono solo ad acquietare le nostre coscienze. Ma, in tal caso, corro il rischio. Perché l'autore dello scatto a sinistra, Sebastiano Nino Fezza, di professione fa il reporter, ma nell'animo è un missionario - o un poeta, o entrambi. È compenetrato dal senso del dolore, lo dipinge; e colpisce, scuote. Forse sarebbe questa l'immagine più adatta a celebrare l'Epifania 2017. Un bimbo che, a differenza della pur commovente statuina della mangiatoia, non ha nemmeno la forza di giunger le mani, e sa pregare solo col corpo. Il suo giaciglio è un materassino-sudario, lo sguardo erra in un vuoto senza speranza, già vizzo. È un'Epifania senza comete né gloria. E per questo, così simile all'Epifania reale, in un angolo di mondo, duemila anni fa. I Magi venuti da lontano videro molto probabilmente un bimbo in queste condizioni, anonimo e disperato. Noi abbiamo tramutato le feste natalizie in una sceneggiata dolciastra, ma ogni nascita presuppone una fine. Un ciclo naturale, logico. Ma la fine del Natale è la croce, che non mancava mai sullo sfondo dei presepi stellati d'un tempo. E la croce non ha nulla di logico e naturale. La croce la produciamo noi. Il bambino siriano sembra già attenderla, vinto, con le braccia fragili e tese, e la resurrezione non ci sarà.
© Daniela Tuscano

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