MEMORIA E CONOSCENZA © Daniela Tuscano

MEMORIA E CONOSCENZA
"Evento storico", "memoria storica". Quante volte abbiamo letto o udito queste espressioni? Troppe, probabilmente. E per questo sono diventate pura retorica, suoni fluttuanti in un etere che ogni giorno, anzi, ogni ora, si riempie d'altri eventi e memorie pronti a sostituire nel nostro immaginario quelli appena depositati - e subito svaniti. La storia, per natura legata al passato, alla meditazione, al silenzio, oggi ci precede; immagini s'accalcano a immagini, spesso truci e impietose eppur
imprendibili  nella blogosfera.
 È il martellamento continuo a creare un minimo di certezze quand'anche siano pregiudizi, di valori pur se spesso si tratta di razzismo (sempre meno) camuffato.
CONTRO OGNI AMBIGUITÀ - Quando un evento è ritenuto degno di "passare alla storia"? Quando ha provocato qualcosa d'enorme, epocale, straordinario, nel bene e nel male. Ma più spesso a scuotere è il male: lui a fissarsi nella memoria, con buona pace delle anime candide. E non è vero non lasci traccia: la lascia, invece, spesso indelebile, e senza speranza. Perché di fronte al male il nostro atteggiamento è da sempre ambiguo. Lo ricusiamo ma ne siamo affascinati. Non è sempre "invincibile" (tutt'altro) né tantomeno inevitabile, basta però ne abbia l'apparenza e ne subiamo la sinistra attrazione.
La storia perpetua quest'ambiguità. Il pantheon storico ospita grandi condottieri, grandissimi dittatori o entrambe le cose, conquistatori, gloriose epopee di "civiltà" spesso a danno di altre ben più degne di tale nome. Predominanza quasi assoluta di bianchi, occidentali e caucasici, donne inesistenti e, su tutto, l'idea che la virtù e la ragione coincidano necessariamente col predominio, la gerarchia e il sopruso.
La seduzione del male di questi tempi ha poi assunto inedite coloriture.
Già nel lontano 1979 Giovanni Testori osservava: "Anche la poesia, anche l'arte sono state in grado di dar forma e figura agli assassini; al male; non ai santi; non al bene. Così mi domando se gran parte della cultura moderna sia veramente stata critica e giudice nei confronti del male o se, col gesto di colpirlo, non abbia alle volte trovato un modo sinistro e luciferino, per diventarne complice".
Nella nostra memoria si sono fissati Hitler e Mussolini, Stalin e Pol Pot, Bin Laden e al Baghdadi; oggi conosciamo la fisionomia di Bouhlel e dei killer di Dacca, molto meno quella delle loro vittime e oppositori.
Ebbene, esigiamo una revisione del concetto di storia; vogliamo definire "rivoluzionario" ed "epocale" chi sovverte i "valori" dell'intolleranza e della violenza, non quanti li propugnano. Solo così si disarma, anzi, si dissangua il male.
Questo non è il periodo dell'estremismo islamista. Esso va ovviamente conosciuto e studiato, per difendersene. Ma non dobbiamo concedergli, e concedere ai mezzi di comunicazione, di monopolizzare il nostro immaginario.
IL DOVERE DI RICORDARE - I protagonisti di questa fase della vicenda umana non sono al Baghdadi e i suoi epigoni. Si chiamano Faraaz Hossein, Ishrat Akhond, Khaled al-Asaad, Mohammed Bouazizi, Khaled Wahab e molti altri. Alcuni vivi, la più parte morti. Taluni più lontani nel tempo (ad esempio Wahab, difensore di ebrei durante il nazismo), altri nostri immediati contemporanei. Moltissimi autentici martiri, come ricorda la madre di Faraaz: "Ho sempre detto a mio figlio una cosa: rispetta sempre le donne e la loro dignità. Poteva uscire vivo da quel ristorante [di Dacca, dove i jihadisti hanno fatto strage di stranieri, compresi nove italiani]. Ma non ha dimenticato questi insegnamenti e non ha lasciato sole le sue due amiche. Ha mantenuto vivi i valori in cui credeva a costo della vita". Faraaz era musulmano. Non aveva trovato niente nella sua religione che l'autorizzasse a disprezzare le donne, anche se non molto osservanti, come le sue emancipate amiche. Secondo i referti medici ha lottato con gli assassini che le stavano torturando, prima di essere ucciso assieme a loro.
Il sacrificio di Ishrat ha replicato, sotto certi aspetti, il gesto eroico del filosofo Bergson nella Francia occupata dai nazisti. Anche Ishrat, come Faraaz, era musulmana. Ma s'e' rifiutata di recitare i versi del Corano davanti agli assassini. Non era quella la religione che aveva conosciuto, pur se ne aveva l'involucro. L'Islam dei jihadisti per lei equivaleva al "Gott mit Uns" sugli stendardi hitleriani: una bestemmia.
Era musulmano Khaled al-Asaad, il direttore del museo archeologico di Palmira, decapitato da Daesh per non aver svelato l'ubicazione delle opere d'arte; era musulmano Bouazizi, che col suo sacrificio contribuì alla cacciata di Ben Ali in Tunisia, l'unico paese in cui fra mille difficoltà si è avviato un processo di democratizzazione. È musulmano Hamadi Ben Abdesslem, la guida turistica che salvò i turisti italiani a lui affidati durante l'attentato del Bardo; è musulmana la famiglia tunisina che, a Nizza, ha salvato otto studenti italiani dal Tir criminale di Bouhlel.
Musulmane, infine, erano la prima e l'ultima delle vittime di Bouhlel. Non eroi, ma persone semplici: una donna velata, Fatima Charrihi, madre di sette figli, dall'aria mite e rassegnata che ha avuto il solo torto di trovarsi su quella maledetta traiettoria, quel maledetto 14 luglio, per godersi i fuochi artificiali; e un bellissimo bambino di tre anni, Kylian Mejri, sterminato assieme alla madre Olfa. Tutti franco-tunisini, come l'omicida.
La nera parabola di Bouhlel non deve oscurare lo splendore di queste vite, né i loro nomi. Non si commetta il tragico sbaglio d'identificare l'Islam con le bestemmie dei fondamentalisti. Una storia che lo permetta non farebbe che perpetrare la connivenza col Male.

© Daniela Tuscano

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