La stampa che giustifica la violenza sulle donne è irresponsabile oltre ad essere carta straccia

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Nella seconda metà di luglio dell'anno 2016, in Italia, e più precisamente in Lombardia, può capitare di leggere testate, come "La Provincia di Varese", che in prima pagina, taglio medio, inseriscono uno strillo intitolato "E' riuscita a distruggermi la vita. Ha vinto lei, vi chiedo perdono". Richiesta, all'apparenza, del tutto illogica: perché mai un uomo la cui vita è stata distrutta invocherebbe il perdono? Dovrebbe farlo chi gliel'ha rovinata, no?


Poi, addentrandosi nella lettura, il mistero comincia a diradarsi. La distruttrice di vite non può più chiedere perdono, è morta. Non di morte naturale. L'ha ammazzata il distrutto. Che non era uno qualunque. Bensì il marito (pur se, ironia della sorte, si chiama Scapolo). Distrutto. Dalle continue angherie di lei: "non un violento" ma - come testualmente riferito dall'autrice (!) dell'articolo, Simona Carnaghi - "un uomo mite, lavoratore, che voleva andarsene da una donna che a suo dire l'aveva vessato fino all'esasperazione e che lo minacciava 'Se mi lasci ti riduco sul lastrico'. Un uomo piegato da quel rapporto. Vinto. Un uomo che è esploso". E certamente quell'ennesimo litigio a proposito delle vacanze era un motivo bastante a far esplodere un uomo così mite, il quale, colto da "raptus", prima ha preso a martellate l'intollerabile Santippe, poi l'ha soffocata, così, per non sbagliare, per finir bene il lavoro. E a chi l'"accaduto" - è scritto proprio così, "accaduto", come si trattasse d'una disgrazia, o d'un disguido: l'ho distrutta, è accaduto! - apparisse un po' troppo freddo e calcolato per essere un semplice raptus, la giornalista spiega: "non ha mai maltrattato la moglie, ha perso la testa cedendo a una violentissima quanto non giustificabile follia TEMPORANEA", purtroppo conclusasi con la morte della distruttrice per mano del distrutto. Ma è stata l'unica volta, si badi bene, non l'aveva mai ammazzata prima, era sempre stato buono e dolce. D'altronde, concluso l'"accaduto", il distrutto ha subito dato prova della sua sensibilità, anzi, della sua "pietà", come sottolinea l'ineffabile Carnaghi: "ha coperto il corpo dopo aver recuperato lucidità (...) e ha chiuso i due cani di famiglia nell'altra stanza per evitare che si avvicinassero al cadavere". Fosse mai che lo profanassero, magari sbranandolo. Magari distruggendolo.
Poi, nella sua immensa bontà, ha chiesto pure perdono. Insomma la vittima dell'"accaduto" non è l'accoppata, che anzi "ha vinto" e adesso, sotto terra, se la starà ridendo alla grande, ma il mite marito, il distrutto, che per colpa sua ha la vita rovinata (però vive). Accade questo, nella seconda metà di luglio dell'anno 2016, a firma d'una donna, Simona Carnaghi, su un giornale di provincia dell'Alta Italia. Chi crede, può mandarle due righe, così, tanto per ringraziarla della professionalità.
Non è l'unica, invero. Alcuni chilometri più a Sud, commentando le atroci sevizie inferte a un adolescente da due pedofili di mezz'età, il direttore de "Le Cronache di Salerno" titola: "Froci e pervertiti violentano 17enne". Aurelio Mancuso, di Equality Italia, s'è fatto portavoce dello sdegno di molti, i quali hanno visto in quelle frasi paludate un'equazione tra pedofili e "froci". La replica del direttore non necessita, a nostro avviso, di ulteriori chiose. Su una considerazione, buttata lì un po' a caso e di cui nessuno s'è curato, pensiamo però sia opportuno soffermarci. "La vicenda di Cava [dei Tirreni, dove il crimine ha avuto luogo], è BEN PIÙ GRAVE - argomenta il direttore - di uno stupro che pure è cosa gravissima". Verrebbe da chiedere quale sia la differenza tra l'una e l'altro. Violare una donna è meno grave rispetto a un ragazzo? Anzi, assai meno grave? Può asserirlo solo chi non ha nemmeno una lontana idea di cosa sia uno stupro. Forse perché c'è sempre "ben altro" prima d'una donna, forse perché siamo tutti figli d'una cultura che fino agli anni '70 del Novecento ha propagandato la supremazia assoluta del maschio, dei suoi "raptus" e del suo vittimismo delittuoso; e che fino al 1996 ha considerato la violenza sessuale un reato contro la morale, davanti a cui premono altre urgenze, BEN PIÙ GRAVI. Forse perché una donna non è mai altro, nient'altro che una donna. Nella seconda metà di luglio dell'anno 2016, molti (e, ahimè, molte) la pensano ancora così; taluni lo scrivono sui giornali.

© Daniela Tuscano


   ricevo   e riporto sempre   dall'amica   ed  utente  Daniela  Tuscano   questo appello 


No Raptus
Il 19 luglio scorso Loretta Gisotti, 54 anni, è stata assassinata dal marito. L’uomo l’ha presa a martellate e l’ha finita strangolandola.
Sul quotidiano La Provincia di Varese, a firma di Simona Carnaghi, sono usciti due articoli così intitolati: “Lei era sempre critica con Roberto e “E’ riuscita a distruggermi la vita. Ha vinto lei, vi chiedo perdono.
Gli articoli giustificano la violenza compiuta dall’uomo, colpevolizzano la vittima e, in un rovesciamento dei ruoli, empatizzano con l’assassino, evidenziandone la sofferenza.
Nel primo articolo si parla di una coppia normale che stava per andare in vacanza, nel secondo invece di una coppia che era già separata. Secondo la giornalista una critica non gradita nei confronti di un uomo sarebbela goccia che fa traboccare il vaso” e può quindi portare al  massacro di una donna come fosse un evento del tutto comprensibile se questa osa entrare in conflitto col marito.
Una narrazione che normalizza il femminicidio. La descrizione dei fatti si fonda sulle  dichiarazioni dei vicini di casa o su quelle dello stesso assassino senza alcun approfondimento. Viene evidenziato il dolore (comprensibile) della madre del femminicida ma si tace su quello dei familiari o amici, della vittima, come se non avessero anch’essi un lutto da affrontare.


 
Nell’articolo ricorre, poi, il fantomatico “raptus” anche se l’Associazione nazionale degli psichiatri italiani ha detto da tempo che non esiste.
L’articolo 17 della Convenzione di Istanbul che responsabilizza i media per cambiare la cultura della violenza è palesemente disatteso, nonostante da anni si parli di cambiare il linguaggio della stampa nei casi di violenza contro le donne, nonostante l’impegno della rete di giornaliste Giulia, che nel 2014 realizzò il  video Io me ne curo per sensibilizzare i mass media ad adoperare un linguaggio che non rimuova la gravità della violenza contro le donne
Eppure continuiamo ad imbatterci in articoli come questi.
Quello che scrivono i giornali incide così come quello che racconta la tv.
Se in un articolo di giornale o in un servizio tv che racconta la violenza subita da una donna, o un femminicidio, si sottolinea come era vestita, o se era antipatica, criticona, poco carina con il marito, le si fa violenza un’altra volta, o la si uccide di nuovo.
Se si insinua che, in fondo, se l’è cercata le si fa violenza, o la si uccide, di nuovo.
Se si parla di delitto passionale, di raptus, la si violenta o uccide di nuovo.
Le parole non sono neutre, e chi fa giornalismo ha una enorme responsabilità nella lotta, o nella conferma, degli stereotipi che alimentano la violenza.
L’informazione consapevole comincia da chi la fa, quindi dalle giornaliste e dai giornalisti, che sono la prima linea della buona o della cattiva informazione, che a sua volta è parte fondante della formazione delle coscienze individuali e collettive.
La serie di articoli pubblicati dal quotidiano la Provincia di Varese è un esempio vergognoso e ripugnante di come non dovrebbe mai essere trattata la cronaca di un femminicidio.
Per aderire scrivete a nadiasomma@alice.it o potete aderire nello spazio dei commenti del blog. Potete anche partecipare a mailbombing alla redazione: redazione@laprovinciadivarese.it  allegando se volete appello e firme.
Monica Lanfranco, Nadia Somma, Giulia Giornaliste, Simona Sforza, Suny Vecchi Frigio, Anarkikka, Antonella Penati di Ass. Federico nel Cuore, Donatella Martini, Barbara Bonomi Romagnoli, Luisa Garbatelli Rizzitelli,Veronica Mira, Barbra Bellini, Imma Cusmai, Ombretta Toschi, Ass.Demetra donne in aiuto, Stefano Marullo,Michela Bianca Nocera,Se Non Ora Quando Napoli,l’Associazione TerradiLei,One Billion Rising Napoli, Irma Lovato Serena, Giulia Laboranti, Cristina Barbieri, Rossana Ciambelli, Clelia Delponte, Donata Villari, Ilaria Nassa, Federico Raffaelli, Silvia Cattafesta, Daniela Tuscano, Pamela de Lucia,  Giusi Dessy, Laura Marrucci, Weruska Mannelli, Katia Cazzolaro, Yoghi Paola Gualano, One Billion Rising Rimini, Michela Prando, Gabriella Bifarini, Franco Barbuto, Andrea Mazzeo Fazio, Agata Manfredi,  Federico Raffelli, Maria Rossi, Roberto Peduto, Tilde Macinelli, Olinda Alò, Tiziana Scarano, Monica Mantivani, Manuela Evangelista,Nunzia Tuberosi, Simona Spaggiari, Marco Holsen,Claudia Varcich, Daniela Benvenuto, Carla Stancampiano, Daniela Iori,Cristina Rubagotti, Karen Ka, Monica Matticoli, Ernesto Sferrazza, Paola Sacchiero, Sara Paoli, Caterina Mion, Nabila Di Pilla, Sara Michieletto, Giovanni Moia, Stefano Dall’Agata, Aurora Munarin, Stefania Prandi, Stefania Spisni, Ornella Guzzetti, Michela Prando, Silvia Cattafesta, Inma Mora Sanchez, Veronica Mira, Vera Bessone, SOS Donna – Faenza, Cinzia Boffi, Christian Sarno,Viviana Elisabetta Gabrini, Paola Tavella, AnnaMaria Passaggio, Isolina Mantelli, Rompi il Silenzio – Centro antiviolenza – Rimini, Pasionaria.it, Manuela Fedeli, Sonia Balzani, Maura Musci, Francesca Cau, Fiamma Lolli, Luigina Pompei, Emanuela Valente, Claudia Forini, Valeria Bucchetti, Alessandra Novarese, Loretta Gisotti,Maurizio Lavore, Maria Grazia Borla, Danila Zangarini, Sabrina Sisto, Telefono Rosa Mantova, Catia Morellato, Alessandra Vanni, Chiara De Baggio, Luisa Giannitrapani, Francesca Genovese, Anna Meli, Valerio Prigiotti, Giovanna Covi,
(l’elenco delle firme  è in continuo aggiornamento)

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