le nuvole di De Andrè - di matteo tassinari

  nei momenti di crisi  o per  evadere   nom  solo uso  i fumetti o la  fantasia  , ma  anche  la musica  . Ed  è  leggendo questo articolo \  post  delll'amico  Matteo  che sono andato a riascoltarmi il disco  anime  salve 




















Vanno , vengono...

di Matteo Tassinari


Il problema vero è stato quello di concepire un album come Le nuvole, dove chi critica la società in cui vive ne è più che discretamente coinvolto e in parte responsabile. La contraddizione era in effetti solo apparente e derivava dal fatto di non volerla accettare mendicando dall'inconscio pudibondi istinti di dissociazione e di auto assoluzione.

"Afferrato il problema,
mi è stato facile
sdoppiarmi da un punto di vista oggettivo e quindi oggettivamente descrivere la vita dei porci continuando soggettivamente a fare il porco, tanto più che nessuno potrebbe descrivere il porcile meglio del maiale. Tenendo semmai presente soltanto una distinzione di carattere più quantitativo che non qualitativo: vale a dire che io, piccolo suino, avrei descritto i sentimenti e i comportamenti di suini molto più grandi di me", disse alla presentazione della conferenza stampa del cd Le nuvole come riferimento costante e misterioso sul senso della vita, oltre quelle bambagia, cosa c'è, già si chiedeva Aristofane? "Le nuvole sono un teatro permanente, uno schermo su cui proiettare le nostre visioni, ossessioni, premonizioni, profili e cornici tra la terra e il cielo", dichiarò Faber al Rockstar Magazine, ancora con la paura di dire una stronzata da dare in pasto ai critici musicali. Lui era molto vanitoso, come tutti, come te e tu e me, come loro e come essi.
Scritto con
Mauro Pagani,
una sorta di Brian Eno italiano, con interventi di Massimo Bubola (in Don Raffae'), il disco nasceva dopo due anni passati in Sardegna e le voci all'inizio del disco sono anche un omaggio all'inimitabile dizione profonda, scandita come la pietra, della gente di Sardegna. Per Faber era un momento difficile, tormentato. Nel 1989 era morto l'amico Emilio Fassio, e pochi giorni dopo a Bogotà anche il fratello Mauro. Il 7 dicembre dello stesso anno Fabrizio e Dori Ghezzi si sposarono dopo quindici anni di convivenza, in una cerimonia riservata. Il rapporto tra i due era profondo e stimolante, ammirevole per tutti quelli che avevano il piacere di condividere alcuni momenti con loro. Dori era la consigliera, l'altra faccia, la sponda, l'intimità, consolidata nei giorni del rapimento, giorni e notti passati insieme in una specie di capanno improvvisato.










La mel odia del 
mediterraneo
In quello     stesso anno Creuza de mà, venne definito il miglior disco italiano del decennio. Faber e Pagani venivano da un'esperienza decisiva. La ricerca e l'approdo al disco-capolavoro avevano radicalmente trasformato la storia musicale di De André, l'approccio da cantautore che bene o male era stato dominante. Non che De André non avesse sempre applicato la massima attenzione alla scrittura musicale, tutt'altro, ma Creuza era un enorme salto in avanti, era una sinfonia del Mediterraneo, un disco dove per la prima volta non era così determinante capire il testo, che infatti molti non capivano, visto che il dialetto genovese è una lingua a sé. Ma importava poco.
Creuza de mà scalinata che va al mare
Il disco    suggeriva
una inedita visione o revisione addirittura della musica italiana, come fosse bagnata dal mare, mossa e maestosa come una barca a vela, ricca di strade, rotte da riscoprire, frutto di un'etnia che come un doppiofondo viveva nei ritagli del paesaggio postindustriale italiano. Un traghetto che collegava porti lontani, immaginati come perle salgariane della fantasia esotica. Per una volta De André era stato veramente Ulisse, quello dantesco che va oltre le Colonne d'Ercole, nel senso del viaggio verso una meta non prevedibile, corsara, colma di sorprese tiranne e clementi, e quello omerico che gira l'universo per poi tornare a casa, forse più conciliante umanamente, ma profondamente diverso da appena 30 anni fa quella stessa visione. Difficile ipotizzare un seguito a un disco che, come all'unanimità si ritiene, ha segnato in modo indelebile la musica italiana. De André non rinunciò a quanto aveva acquisito, ma ora c'era di nuovo bisogno di parole, c'era bisogno di raccontare quello che stava diventando l'Italia. 
Per questo   Le nuvole è    meno
omogeneo, organico, indifferenziato di Creuza, va da sé, ma proprio in questa polifonia di toni è il suo fascino.  Si mettono lì, tra noi e il cielo, come stormi d'uccelli neri che volano compatti e senza paure. De André, perennemente autocritico, rimpiangeva la mancanza di unità dell'album, doveva essere un'intera opera, un concept, poi il filo si disperse in mille rivali creando un disco dai molteplici volti, disunito forse, ma ricco. Di dialetti ce ne sono ben tre diversi. C'è il nuovo De André con la sua nuova fonetica dialettale.



Ottocento
Così Mauro Pagani, che ha curato gli arrangiamenti e strumentistica varia adoperati in quel capolavoro che è 800, il tratto di satira più bello e creativo di questi ultimi anni, pur nella tragicità dei trattati, traffico d'organi, prostituzione, droga, ipocrisia, intellettuali che parlano solo per il loro "Io" vergognosamente dilatato (e mai che che nessuno paghi), spiega la genesi dell'album de Le nuvole:
"Tutto quello che avevamo tra le mani di nuovo trovò peso e collocazione, dai ricchi ateniesi di Aristofane, così simili ai nostri, all'ignavia di Oblomov, dall'incanto malinconico di Čajkovskij alla saggezza un po' guittesca e senza tempo del secondino Pasquale Cafiero". Il dove stavolta finì per essere l'Ottocento, l'Ottocento cattolico e borghese delle grandi utopie, del colonialismo e delle guerre senza senso, così simile per contenuti e scelte ai tempi odierni, in fondo solo un po' più veloci e molto più isterici. In Creuza in fondo ci eravamo divisi i compiti, lui i testi, io le musiche. Quando cominciammo a lavorare al disco nuovo ci rendemmo conto invece che con il passare degli anni il nostro rapporto si era fatto più profondo, che le nostre conoscenze sempre più si influenzavano e si intrecciavano a vicenda. Così stavolta tutto prese forma e identità davvero a quattro mani, chiacchierando, inventando, facendo e rifacendo. Soprattutto guardandoci intorno, con una attenzione al mondo del tutto diversa da quella del disco genovese.

OTTO

CENTO
Il primo brano de Le nuvole la parola è ironicamente aulica, la struttura ricorda l'opera buffa o la versione moderna de La gatta Cenerentola di Roberto De Simone nel 1976. In particolare il verso “quante belle figlie da sposar” ricorda da vicino il canto delle sorellastre di Cenerentola, ma il pezzo va da tutt'altra parte. Dietro lo stile antico c'è l'attuale.




 *Cantami di
questo tempo*

                                                                 *L'astio e il malcontento
*Figlio bello e audace

*Bronzo di Versace

*Figlio sempre più capace 
Di giocare in borsa 
Di stuprare in borsa











 La caduta morale
C’è tutta  l’Italia rampante del craxismo, quella che nella modernizzazione dettata dai tempi e i modi della crescente globalizzazione sta perdendo identità e senso della direzione. C’è l’orrore contemporaneo del commercio di organi, la caduta amorale nella turpitudine dell’opulenza, un frammento elegiaco del padre che ha perso il figlio suicida, ma è accecato dalla sua fraintesa condizione sociale “per ferirmi, pugnalarmi nell’orgoglio, a me che ti trattavo come un figlio”, una feroce danza macabra del gruppo sociale imbellettato che culmina in un grottesco canto jodel. Poi affonda nei vizi dilaganti del paesaggio sociale, come la corruzione politica, culturale ed economica. Doveroso ricordare che 800 è in ricordo all'amico poeta Ferdinando Carola, oppure versi tipo "la verdura di papà" è la maniera in cui Carola chiamava i figli, come anche "cantami di questo tempo/l'astio e il malcontento/di chi è sottovento/e non vuol sentir l'odore di questo motor,/che ci porta avanti/quasi tutti quanti/maschi femmine e cantanti,/su un tappeto di contanti/nel cielo blu", sempre per la propensione del poeta amico scomparso nel non divenire volutamente visibile e non entrare quindi nel meccanismo dei diritti d'autore e di prostituzione poetica.
*Moglie dalle larghe maglie
*Dalle molte voglie
*Esperta di anticaglie,
*Scatole d’argento ti regalerò!

*Ottocento, Novecento
*Millecinquecento, scatole d’argento
*Fine Settecento ti, regalerò!

*Quanti pezzi di ricambio,
*Quante meraviglie,
*Quanti articoli di scambio,
*Quante belle figlie da sposar!

*E quante belle valvole e pistoni,
*Fegati e polmoni,
*E quante belle biglie a rotolar!!!





















800,
Collasso sociale 

indolore
Era il momento adatto per farla - spiega De André. Anche perché nonostante la lucidità che ti permette di intravedere l'avvicinarsi di un collasso della nostra società, di questa società di cui fai comunque parte anche se non vuoi, le maggioranze inglobano a priori del tuo pensiero". L'aspetto satirico era ribadito sulla copertina del live del 1991, con un profluvio di maschere. Pulcinella? Certo, c'è l'irriverenza delle maschere italiane della commedia dell'arte, ma un più antico senso della rappresentazione per metafora dato dal riferimento ad Aristofane. Certo, le nuvole per Aristofane sono occasione di un racconto acuto e persuasivo sui temi della società, la giustizia, il conflitto tra generazioni, il giusto e l'ingiusto, vita, filosofia, Dio, la campagna, la città, vita di risparmio e lusso sfrenato, il vecchio che si dimentica del nuovo come il fumo passa ogni fessura. Le nuvole sono come il fumo, divinità antiche, totem semoventi e mutevoli passaggi evanescenti, attimi di vita, periodici, storie, tutto e niente, libri e ridicoli tentativi di capirli.

























Lirismo d'Ottocento 
Ottocento è un brano decisamente antiquatofuori epocainattualepassato, un'opera buffa che miscela numerosi ispirazioni musicali, il pezzo finisce con un brano cantato in jodeltirolese. Anche l'interpretazione vocale di De André è piuttosto anomala. Impostandola come si faceva nelle opere buffe con frack e papillon, al punto che il cantautore gioca a darsi aria di lirismo, coerente con l'andamento pseudo-operistico predominante nel brano. Ecco cosa disse De André alla presentazione del disco a Milano le motivazioni di questa scelta:
 Omero e la Musa. Cantami o diva del pelide Achille...
"E' un modo di cantare falsamente colto, un fare il verso al canto lirico, suggeritomi dalla valenza enfatica di un personaggio che più che un uomo è un aspirapolvere: aspira e succhia sentimenti, affetti, organi vitali ed oggetti di fronte ai quali dimostra un univoco atteggiamento mentale: la possibilità di venderli e di comprarli. La voce semi-impostata mi è sembrata idonea a caratterizzare l'immaginario falso-romantico di un mostro incolto e arricchito"
A De André è successo
di   essere divorato da una passione inarrestabile, di percepire come nessun'altro il potere della parola, la magia di lavorarla, levigarla laddove ci fosse il bisogno, svezzarla fino al punto giusto, in questo nessuno gli era sopra, fatto riconosciuto dai suoi stesi colleghi e amici, nonostante le tante rivalità e freddezze gratuite o vanitose, finché non emergeva "la parola", quella giusta, quella che aveva maggior potenza e significato, quella parola, non un'altra,  fusa ad una nota che ne svelasse le risonanze, che ne amplificasse la vibrazione lirica e la completezza. Si pensa soprattutto al poeta, ma ci si dimentica che De André era la sua voce, una voce nitida che chiunque di noi ha in questo in testa, ferma, profonda, scolpita, diamantina come un bassorilievo che nei dischi e nei concerti riempiva l'aria con un'autorità che pochi hanno dimostrato, anzi, se paragonati a lui, direi proprio nessuno.





La sua   storia è quella di un artista a tutto tondo (per dire che lo era anche nella vita) che aveva capito un grande segreto a cui i suoi colleghi non c'erano arrivati: la trasformazione della canzone o canzonetta, capire che con la musica si poteva far molto di più che passare 4 o 5 minuti ad ascoltare "acqua azzurra, acqua chiara" o "tutto il resto è paranoia", da eccesso di uso di cocaina. Ormai gli aveva scavato una parte della cartilagine destra del naso, come mancasse la parte ultima e sappiamo che i grandi consumatori hanno grossi problemi coi loro naselli, sgocciolano sempre, il fazzoletto sempre in mano, la paura che sia rimasto sul naso o labbra un pò di bamba e per questo lo gratti come avessi la mania di strofinarti le parti facciali centrali. I vizi si pagano, non solo coi soldi, quella è la meno, tutto è nella testa, tua, mia, vostra, nostra. 

Illusi d’esistenza 















Il Capoclan e il Brigadiero

Don Raffae' è una tarantella brillante dalla prima nota, prodigiosa per l'idea, dotata di un'illuminate bizzarria, tutt'altra che tarantella, ha un livello di profondità che solo i poeti sanno raggiungere nel nostro pensiero. Stravagante, inatteso, lucente fra una un caffè e un Martini o una spremuta. Un affresco di una vita (?) che si svolge in carcere, fotografata con una precisione stilistica ed obiettiva, alata e ammirevole per la realtà dei contenuti del brano Don Rafaè. Un momento dei tanti, chiusi e ambientati tutti, carcerati e guardie a Poggioreale di Napoli. C'è un brigadiero e un capoclan, l'incontro fra due realtà apparentemente diverse, ma così non è. Il contropotere della camorra e l'assenza dello Stato sono temi antichi ormai. La vergogna ci sovrasta. Il brano era in qualche modo ispirato a Raffaele Cutolo, il quale spedi, conseguentemente, a De André tre lettere e un libro di poesie.
Tra le sue varie insoddisfazioni
c'era soprattutto La domenica delle salme. Era contento del testo (“Era tutto quello che avevo dentro e che sentivo di dover dire, un brano che mi soddisfa molto, fatto che capita raramente”) e ci mancherebbe che non lo fosse stato, ma lamentava una eccessiva semplificazione musicale. Qualcosa comunque che non andava, c'era sempre. E' il virus dei perfezionisti, gli insicuri, dei tenaci, che temono lo sbaglio, quindi anche orgogliosi fino al midollo, questi sono gli artisti fino in fondo. Penso a quanti brani di Fabrizio ci hanno aperto la mente, quante novità ha portato quando si era fermi al ciarpame e vecchiume di Claudio Villa o più beat alla Domenico Modugno, dove un briciolo di rivolta già s'intravvedeva. Essere artista non l'ha mai saputo nessuno chi sia. E' vero invece che ci sono diversi artisti, ognuno è un folle alla sua maniera. Come fai paragonare Van Gogh che si tagliò un'orecchio e il godurioso e ridondante Oscar Wilde? O come metti sullo stesso bilancino il ruvido Bukowski con il metafisico Kafka? Non c'è l'artista, ci sono gli artisti.


 Il rispetto della parola
In realtà, se La domenica delle salme risalta come il testo più forte, quasi agghiacciante, dell'intera opera di De André, lo si deve anche alla sua scarna e spigolosa semplicità: un arpeggio di chitarra su cui il cantautore riversa una valanga di immagini violente, cupe, sferzanti. L'assenza di orpelli ne esalta la cattiveria, non ci si può distrarre in alcun modo. Le parole sono li, pesanti come macigni. Mauro Pagani sottolinea che la lentezza con cui procedeva il lavoro era dovuta alla precisione maniacale di De André e soprattutto al suo rispetto della parola.














Quanto giusto pensate che sia

Le virtù profetiche
di Faber

Ne avvertiva tutta la responsabilità, sapeva che dietro ogni parola ci poteva essere un senso, e questa tensione si avverte costantemente nella costruzione dei versi. Se il suo verseggiare è forte, carismatico, contagioso lo si deve al fatto che si percepisce perfettamente come ogni parola fosse meditata, pesata, metabolizzata a fondo. E per questo La domenica delle salme è una canzone che fa male, quasi fisicamente, e ha virtù perfino profetiche. De André sembra un predicatore amareggiato, a cui hanno tolto il beneficio della speranza. L'Italia pare sprofondare in una malsana palude di corruzione. Il potere qui è sinistro, malevolo, nudo, non ha maschere grottesche con cui coprire le sue vergogne.
Troie    di regime
Vivandieri di cose vietate, portaborse, galoppini, lacchè, fiduciari, adulatori, scagnozzi, e lustrascapre, troie di regime, addetti alla nostalgia che accompagnano tra i flauti il cadavere dell'Utopia, Milano che galleggia in una bottiglia di orzata, viandanti che si rifugiano nelle catacombe. Dopo Anime salve, De André chiamò Mauro Pagani per un nuovo progetto, che doveva essere un Requiem dedicato al secolo che finiva e allo sfacelo sotto cui viviamo. Una parodia della nostra vita quotidiana, ignobile e ripugnante. Non fece in tempo a farci anche questo regalo. La malattia aveva già ideato il titolo per il Requiem di Faber: Le nuvole.

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