Dalla tanca alla cattedra I Taviani: perché decidemmo di girare “Padre padrone”

mentre  aggiornavo  il la  seconda puntata (  come risparmiare e non sprecare in tempo di crisi durante le festività natalizie - seconda puntata i regali ) della mia guida   natalizia   di quest'anno  e  contemporaneamente  gettando un occhio sull'edizione  giornaliera   dell'unione sarda  d'oggi  , ho trovato   questa storia  . 

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Un grande film, che vinse la Palma d'oro a Cannes, ispirato al libro di Gavino Ledda  Dalla tanca alla cattedra I Taviani: perché decidemmo di girare “Padre padrone”



Di anni ne sono passati 36, eppure il film Padre padrone (da domani in edicola con L'Unione Sarda) resta un modello di cinema da imitare. E da amare. Inutile dire che per Paolo e Vittorio Taviani   ( foto  a destra  ) quest'opera sia più di un pezzo della loro vita, e non solo perché vinse la Palma d'oro al festival di Cannes del 1977 con la benedizione di Roberto Rossellini. Per i Taviani Padre padrone
da google  immagini 
significa aver ritrovato, nella storia personale di Gavino Ledda  (  foto  sotto al centro  )  , anche le radici della loro decisione di voler fare cinema.
Racconta Vittorio Taviani (anche a nome del fratello). «Un giorno leggemmo per caso su “Paese sera” la notizia di un pastore, rimasto quasi muto fino a vent'anni, diventato professore di glottologia. Non avevamo ancora letto il libro di Ledda ma la storia di questo giovane che in nome del bisogno di comunicare con gli altri diventa un professionista della comunicazione, con la volontà della testardaggine, la sentivamo nostra». Un istinto di ribellione che riportò i Taviani molti anni indietro, quando ventenni scoprirono il cinema vedendo in una saletta di Pisa Paisà di Rossellini. «Quel film ci mostrava qualcosa che avevamo vissuto. Uscimmo dicendoci: o facciamo cinema o morte!».

idem foto precedente 

Taviani e Ledda, uniti dalla stessa consapevolezza di voler comunicare col mondo. «Decidemmo - dice Vittorio - di andare a trovare Gavino. In quei giorni era a Pisa, relatore in un piccolo circolo. “Io saprei come risolvere i problemi politici della mia terra”, proclamava. Restammo stupiti e ammirati da quest'uomo piccolo ed esagerato. Aveva dentro una forza, parlava come se lui pensasse davvero di fare queste cose». Così i Taviani decisero di leggere il libro: «Ci piacque moltissimo e pensammo di prendere, come abbiamo fatto con altri autori letterari, questa bellissima creta e rimodellarla a modo nostro». Gavino, spiega ancora Vittorio, disse: «Non dirò una parola sul vostro film». Capì, da fine intellettuale e persona intelligente, che libro e film erano due cose diverse.
Un poster di Padre padrone (versione israeliana) dove si vede la tanca, appeso alla parete dello studio di Vittorio Taviani, suscita altri ricordi. «Per una decina di giorni facemmo i sopralluoghi in Sardegna. Ci facevano vedere cose troppo belle, come quelle straordinarie rocce rosse sul mare. Non era questo che ci interessava. Eravamo preoccupati: l'ultimo giorno di perlustrazione non avevamo ancora trovato la tanca. Sulla strada verso l'aeroporto di Alghero, dal finestrino della macchina scorgemmo qualcosa di interessante. “Ferma!”, dissi. Era la tanca che cercavamo. Il film è nato lì, in quel momento».
La parte di Abramo (che nel film si chiama Efisio) cioé del padre padrone, doveva essere di Gian Maria Volontè. «Avevamo fatto con lui il nostro primo film, Un uomo da bruciare. Pensiamo sia stato
locandina del film presa da http://www.mymovies.it/
             ne trovate negli url sopra la recensione
il più grande dei nostri attori, anzi lo consideriamo un autore perché portava una creatività che diventava una delle pulsioni dei film. Però era anche una persona che viveva una nevrosi, una sofferenza che faceva male a se stesso e agli altri. Comunque lui diede l'ok al progetto, tanto che la Rai annunciò il film col suo nome. Andammo a Malta a trovarlo, lui stava lì per aggiustare la sua barca; parlammo, modificammo anche qualche dettaglio della sceneggiatura. 
Ci dicemmo: inutile incontrarci a Roma, vediamoci direttamente sul set in Sardegna. Tutto era pronto ma Gian Maria non rispondeva al telefono. Non si faceva trovare. Giuliani, il nostro produttore, era infuriato. Non si poteva più aspettare. Ci ricordammo allora di aver visto a teatro, in una versione di Giulio Cesare , Omero Antonutti, che ci aveva molto colpito. In fondo fu una fortuna: Omero ha portato una forza nuova, originale. Per la prima volta faceva cinema e, oltre la sua bravura, aveva anche uno stupore genuino davanti alla cinepresa. Volontè forse avrebbe imposto la sua maschera». Già, ma perché rifiutò il ruolo? «Disse che avrebbe voluto farlo ma si era accorto che i Taviani amavano più il personaggio di Gavino di quello del padre».
I ricordi affiorano ancora. La polemica in Sardegna («Il film fu attaccato, anche ferocemente. Non rispondemmo a nessuno ma avvertimmo: “Ne parleremo fra dieci anni”. Il tempo ci ha dato ragione»), il bluff di Saverio Marconi («Imbrogliò sull'età per avere la parte»), la grande collaborazione della gente sarda. «Siamo riconoscenti a tutti, a Gavino in primis al quale mandiamo un pensiero di affetto. La Sardegna resta un punto di appoggio nel nostro rapporto con la vita. E, credetemi, quando ora vedo la disperazione dei pastori sardi, sto male».

                                            Sergio Naitza

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