la mafia non perdona Alessio Cordaro: “Il nonno boss fece uccidere mia madre”. Il racconto choc Aveva solo 4 anni quando sua mamma, Lia Pipitone, morì in una strana rapina. In realtà, dice oggi, fu una messinscena per nascondere un delitto d'onore



da www.oggi.it del 5\10\2012
Alessio Cordaro svela una storia choc: "Fu mio nonno boss a uccidere mia madre"

Alessio Cordaro ha 33 anni  (  foto sopra  al centro  )  un piercing sul sopracciglio e un buco nel cuore. Perché sua mamma gliel’hanno ammazzata che era una ragazza, e lui un bambino piccolo. E perché a mandare due sicari è stato il nonno. Suo nonno: lui ne è convinto.
DELITTO D’ONORE – Delitto d’onore. Roba, forse, di un altro secolo. In effetti in quel settembre dell’83 c’erano ancora i telefoni a gettone. E Rosalia Pipitone fu proprio per chiamare qualcuno dall’apparecchio a muro che entrò nel negozio di sanitari di via Papa Sergio 61. Sfortunatamente, poco prima di due “rapinatori”.
LA VITTIMA NUMERO 85 - Un colpo, poi un altro e la venticinquenne Lia divenne la vittima numero 85, quell’anno, a Palermo e provincia. E tutti a portare le condoglianze a suo padre, Antonino Pipitone, uno che apriva cantieri, faceva affari, si prestava per trovare lavoro e, come disse lui al giudice, «faceva la cortesia di mettere pace»: insomma, un boss. Anzi, il boss, all’Arenella.
L’INCIDENTE CHE NON TORNA… - Un incidente? Peccato che di solito i rapinatori puntano alla cassa e non si attardano a guardare in giro, specialmente quando il negoziante se l’è già fatta sotto e ha messo l’incasso, 250 mila lire, sul bancone. E di solito se proprio sparano al malcapitato finito “nel posto sbagliato al momento sbagliato”, non dicono prima ad alta voce «mi ha riconosciuto!», neanche dovessero rendere conto di quello che fanno a un’intera città.
IL LADRUNCOLO INCAPRETTATO – Ma facciamo finta di credere alla rapina. Come si concilia la mancata individuazione dei responsabili con l’inesorabile legge del “di solito”? Di solito chi tocca un parente del boss paga per molto meno. Lì vicino fu scippata la moglie di Rosario Riccobono, che all’Aquasanta era “l’autorità”. Il ventenne ladruncolo Claudio Orlando fu subito individuato, si scusò, riportò la borsetta, si chiuse in casa. La prima volta che uscì, dopo giorni, finì incaprettato.
DONNA TROPPO RIBELLE - Quindi? Quindi non è assurdo pensare a quella rapina come a una messinscena. D’altronde, che si doveva fare con quella giovane donna da sempre troppo libera e pure ribelle, che già a diciott’anni era scappata di casa? La pecora nera della famiglia, questa Lia, sposata con un buon uomo ma troppo amica di un altro ragazzo, Simone. Un disonore per il padre, che era arrivato a sputarle in faccia durante una discussione, una minaccia per la credibilità di tutto il clan.
“PROMETTIMI CHE TI OCCUPERAI DI ALESSIO” – No, non è un film. Al marito, che la vedeva come in gabbia e cercava di non perderla concedendole più spazio, e le consentiva, lui sì, persino di andare a passeggiare da sola in centro, due giorni prima di morire Lia aveva detto: «Se mi accade qualcosa promettimi che ti occuperai di Alessio».
TUTTA LA STORIA IN UN LIBRO – Papà Gero l’ha fatto, e se n’è occupato bene, se adesso a raccontare la storia di mamma Lia in un bel libro scritto col giornalista diRepubblica Salvo Palazzolo c’è un uomo solido e socievole, paziente quando lavora al call center, scatenato quando si lancia col paracadute. All’incontro con Oggi, Alessio arriva su una Ducati 1199 Panigale, reduce da un viaggio che non si misura in chilometri. Perché è un viaggio dentro se stesso.
Quando è iniziata la sua ricerca della verità, Alessio?
«Non certo quando Salvo mi ha contattato su Facebook chiedendomi se fossi il figlio di Lia Pipitone e se avessi desiderio di provare con lui a reperire nuove informazioni. Il mio viaggio, in realtà, lo avevo già fatto, avevo già tirato le somme e mi ero arreso a ciò che avevo intuito, senza voler andare oltre. Arrivare al “chi ha ucciso” e al “perché è stata uccisa” tua madre non è un percorso così semplice».
Insomma, in realtà lei non voleva davvero sapere tutto su sua madre.
«Quando ho letto la proposta ho pensato di rispondere “mi spiace, non sono io”, e di chiuderla lì. Poi mi è venuta voglia di conoscere meglio mia madre. Non ne ho ricordi nitidi, e lo rimpiango: ero troppo piccolo, le immagini che ho di mamma sono frutto di narrazioni, comprensibilmente addolcite».
Suo padre, che cosa le disse di mamma Lia?
«La prima versione fu quella dell’incidente in bici. E per tanto tempo mi è stata bene».
E suo nonno?
«Lo vedevo quindici giorni all’anno, d’estate, e con lui non sono mai stato a mio agio. Sarà che con papà ci eravamo trasferiti dai nonni paterni, a 90 chilometri da Palermo ed ero abituato alla vita di paese, dove erano tutti più sereni… Sarà che era molto rigido, poco espansivo. Visitarlo era un dovere da assolvere. Come quello di andare a trovarlo in carcere, dove mi dicevano che era entrato per delle questioni fiscali o abusi edilizi, non so. Di lui, in famiglia, nessuno mi parlò mai male. Una volta gli dissi un “no”. Avevo 14 anni e volevo un motorino, sapeva che mi piaceva il Malaguti: mi fece trovare un’Aprilia. La lasciai lì. Ho sempre avuto difficoltà ad accettare qualcosa, anche se una volta mi ha trovato un posto da magazziniere: dopo tre mesi ho visto come mi trattavano, con troppo riguardo, e me ne sono andato».
Nel libro lei racconta che a un certo punto suo padre finalmente apre la scatola dei ricordi di sua madre e le mostra i ritagli di giornale sull’omicidio. Intanto alcuni pentiti, siamo nel 2003, fanno il nome di suo nonno come mandante del delitto, c’è il processo e lui viene assolto per insufficienza di prove. Possibile che lei non chiese spiegazioni? 
«Ho avuto timore delle mie reazioni. Quante volte sono partito per chiederglielo e mi sono fermato all’ultimo momento! Credo di avere un carattere forte e di aver avuto un’autonomia superiore a quella dei miei coetanei ma la mia adolescenza non è stata semplicissima: lei sa cosa vuol dire quando a scuola riuniscono i genitori e tu vorresti avere lì tua mamma? In verità, parlavo poco di lei. Si capiva che c’era una ferita aperta solo quando, ritornato a Palermo a studiare alle superiori, succedeva che, anche scherzando, qualcuno dicesse “quella arrusa di to matri”. Puttana non è un complimento».
Scusi se insisto: ma almeno mettere alle strette sue padre? Lui, magari, sapeva…
«Io lo ammiro, perché o fai i bagagli con un figlio di quattro anni e vai dall’altra parte del mondo oppure in questo contesto sbatti contro vicende pesanti. Quando si è aperto con me e mi ha mostrato i fascicoli finalmente ha potuto condividere, penso, un peso. Io ho trovato conferma a quello che già sospettavo: mi era chiaro che qualcosa non tornava».
Sul nonno?
«Su Antonino Pipitone: dobbiamo sempre chiamarlo nonno?».
Pensa che suo padre non le abbia parlato prima per proteggerla?
«Indubbiamente. E poi lui è una persona ermetica. Era giovane, ha cercato la strada migliore per sopravvivere in un ambiente così, magari accettando compromessi. Io fino a prova contraria, credo che il nonno c’entri con quello che è successo. E penso che mio padre sia ancora più convinto di me. Di recente ha partecipato all’esperienza di Addio Pizzo contro il racket: è stato il suo modo di palesare finalmente alla società la sua opposizione a ingiustizie che ha vissuto sulla sua pelle».
All’inizio della sua ricerca verso la verità, non ha temuto di scoprire una mamma diversa, di intaccarne l’immagine?
«Indende “scoprire che tradiva mio padre”? No, nessuna paura. In un contesto del genere, se le cose con papà non andavano bene difficilmente avrebbe potuto parlargli e prendere un’altra strada. No, l’immagine che ho di lei è solo quella di vittima. Magari vittima di una banalità come un tradimento («Certo non è una banalità per la struttura sociale mafiosa», aggiunge Salvo Palazzolo, ndr)».
E con questo libro cosa rischia e cosa si propone?
«Avevo trovato un equilibrio nella mia vita e adesso invece dovrò ricostruirmi da zero. Ma spero che qualche vecchio amico di mamma si faccia vivo per darmi altri tasselli. E magari la magistratura potrà fare luce sul delitto: non ho scritto il libro per puntare il dito contro qualcuno ma se si scopre il “chi” e il “perché” avrei reso giustizia a mia madre».
Aggiunge Salvo Palazzolo: «Posso dire che uno degli ultimi atti del giudice Antonio Ingroia prima della sua partenza per il Guatemala è stata la riapertura delle indagini su Rosalia Pipitone. Chi è sospettato del delitto non è un killer di borgata ma Vincenzo Galatolo, oggi all’ergastolo per tanti omicidi e allora ai vertici di una cosca su incarico di Totò Riina, uno che ebbe un ruolo nella strage Chinnici, uno che fu custode del fondo da cui partirono i sicari di molti omicidi eccellenti. L’altro che i pentiti hanno indicato come killer fu ferito a morte in un conflitto a fuoco, e le sue ultime parole a un prete furono un’invocazione: “Dio potrà perdonarmi per quello che ho fatto?”».
Livio Colombo

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