Il giorno dopo


Com'è un campo di calcio dopo una sconfitta? Simile all'ultimo giorno di scuola: sempre troppo vasto, spianato, interminabile. Melanconico anche, certo: ma privo di quel brivido sottopelle, di quell'attesa nascosta e colma di felicità. Il campo dei perdenti è sgombro come il silenzio circostante: un rito si è sfilacciato, inevitabile.
Ieri siamo stati i perdenti. Sonoramente perdenti, di fronte alla possanza spagnola. Non poteva che andare così (forse abbiamo sprecato qualche palla, ma il risultato non sarebbe cambiato di molto). Ma una sconfitta del rito comporta sempre una rinascita: e chissà che non siamo usciti, finalmente, dall'adolescenza. Perché in questi ultimi giorni ho visto in campo più degli adolescenti che dei professionisti: e non alludo all'abilità tecnica, parlo del cuore. Il calcio italiano rifletteva una nazione allo sbando, lasciata per troppo tempo senza guida, ricca e giovinetta. E la nostra Nazionale ha cominciato timidamente a balbettare la propria umanità solo quando è stata portata in visita ad Auschwitz, a toccare con mano l'inimmaginabile, ancor prima che l'ignorato. Rivelando, a sé stesso prima che al mondo, d'esser figlio di madre ebrea, Mario Balotelli aveva cominciato a razionalizzare quella sua rabbia istintiva verso tutto e tutti. A capire, realmente, il senso della giustizia.
La nostra Nazionale si è pian piano ri-creata nel momento in cui si è sentita un insieme, e non soltanto un'unione di singoli. La nostra Nazionale, infine, s'è ritrovata orgogliosa di cantare l'inno nella squarciagola ingenuamente stonata di Buffon, memore dei suoi bisnonni eroi del Piave e non solo della moglie modella.
Una squadra, la nostra, che ha aperto gli occhi sul valore della sconfitta, sulla difficoltà della crescita. Forse questa consapevolezza è ancora in nuce, forse non durerà; vogliamo però ingenuamente sperarlo. In fondo, diventare autonomi è la più ardua delle battaglie. Nel calcio, e ancor più nella vita.

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