Corriere della Sera 14.2.12 Matteotti, il delitto e la beffa A rischio le carte del legale che denunciò il processo farsa di Paolo Fallai

Corriere della Sera 14.2.12
Matteotti, il delitto e la beffa
A rischio le carte del legale che denunciò il processo farsa
di Paolo Fallai

PESCARA — Questa storia ne contiene due. Comincia da una calligrafia dolorosa: le lettere sono alte e strette come a precipitare il più presto possibile verso la fine. È il 29 marzo 1926. Velia Matteotti è la vedova del deputato socialista assassinato dai fascisti il 10 giugno 1924. Si è appena concluso a Chieti, dove è stato spostato per allontanarlo da Roma, il processo farsa ad alcuni degli assassini. Un processo a cui Velia non ha voluto partecipare, ritirando la costituzione di parte civile. Scrive «ora che il procedimento è chiuso» per chiedere la restituzione di «tutto ciò che appartiene al suo defunto marito». E in particolare di «una falangetta» che «il rispetto mai negato alla pietà famigliare impone di consegnare alla famiglia del defunto e a questa sola». Ma il triste elenco prosegue: la tessera ferroviaria, una ciocca di capelli, giacca e pantaloni «compresa la manica strappata». «E se nulla lo vieta — prosegue la vedova Matteotti — si chiede che sia consegnata alla sottoscritta anche la lima rinvenuta nella fossa della Quartarella».
È una semplice lima da cantiere, trovata il 16 agosto 1924 accanto al cadavere malamente sepolto nelle campagne vicino a Roma e ritenuta, almeno in quel momento, l'arma del delitto. Ma Velia Matteotti queste richieste non sa a chi rivolgerle. La lettera è infatti inviata all'avvocato Pasquale Galliano Magno di Chieti, che l'ha assistita dopo il trasferimento del processo, con la preghiera di inoltrarla a chi può decidere. Il legale lo farà, ma nessuna delle richieste di Velia sarà accolta. Dispersa la «falangetta», piccola testimonianza muta di un corpo smembrato da un assassinio feroce; scomparsa la ciocca di capelli, tagliata il giorno del ritrovamento proprio per farla avere alla vedova. La lima sarà addirittura battuta all'asta e comprata per «due lire» da uno squadrista, Francesco Grifi, quale trofeo per aver comandato la milizia che aveva prestato servizio durante il processo di Chieti.
La lettera di Velia Matteotti era nota. Non si sapeva che l'originale si trovava in una piccola cartelletta consunta, con l'intestazione «Processo Matteotti», nello studio pescarese dell'avvocato Magno. Il legale è scomparso nel 1974. Ma quella cartella è riemersa pochi mesi fa, quando il figlio Carlo e la nuora dell'avvocato Magno, Marina Campana, hanno dovuto trasferire lo studio, l'archivio e una bella biblioteca di oltre cinquemila volumi, molti dei quali preziosi.
E qui comincia la seconda storia, quella di un avvocato antifascista che, tra la fine del 1925 e l'inizio del 1926, accetta di patrocinare Velia Matteotti e di subirne tutte le conseguenze. Abitava a palazzo Tella, a Chieti, l'avvocato Galliano Magno e non aveva mai nascosto la sua opposizione alla brutalità del fascismo. Quando l'avvocato Emanuele Modigliani, compagno di partito di Matteotti, gli chiese di assistere Velia nel processo a Chieti, non ebbe esitazioni. E nel ritiro della parte civile non si nascose dietro le parole: «Questo è un processo burla» disse alla Corte che avrebbe inflitto pene ridicole solo ad Amerigo Dumini, Albino Volpi e Amleto Poveromo, scarcerandoli subito dopo. D'altronde gli imputati di quel processo era stati osannati al loro arrivo a Chieti come «eroi del fascismo» e i giurati erano stati scelti con cura tra i fascisti più affidabili.
Per l'avvocato Magno fu l'inizio di un calvario durato quindici anni. Innumerevoli le perquisizioni nel suo studio, i sequestri degli atti, tanto che nella cartelletta compaiono numerosi fogli scritti in cifra. Non sono stati decodificati, ma appare credibile che si tratti di appunti presi con un codice per tenerli riservati. Non basta: per l'avvocato cominciano una serie di agguati, percosse, cure «all'olio di ricino» e umiliazioni che lo costringeranno a svendere il palazzo di Chieti e a trasferirsi a Pescara, dove continuerà a lavorare in uno studio dove altri avvocati firmano gli atti che lui cura. Le ferite sono tali che fino alla fine della sua vita avrà problemi di vista e di deambulazione a causa delle percosse. Non accettò denaro e Velia Matteotti gli regalò la stilografica di suo marito, che il figlio custodisce ancora oggi con devozione. E parole di grande affetto: «Colgo l'occasione di ringraziarla per ciò che ella ha fatto in questo doloroso frangente, convinta che le venga resa tanta stima e considerazione da tutti coloro che ancora hanno e possono apprezzare la bontà d'animo e la dirittura della coscienza». La persecuzione nei confronti di Pasquale Galliano Magno non sarà mai interrotta. Presidente del Comitato di liberazione nazionale, viceprefetto politico per volontà degli Alleati, scoprirà un dossier a suo nome della polizia fascista, che aveva continuato a spiarlo fino a guerra inoltrata, con alcune annotazione al limite del ridicolo: «Impossibile verificare l'ascolto di Radio Londra perché gli alti strilli del figlio lo impedivano».
Incaricato delle epurazioni, non ne eseguì neanche una. Tanto che l'ex ministro fascista Giacomo Acerbo lo nominò tutore dei suoi beni. «Tutto questo — dice oggi la nuora Marina Campana — dovrebbe interessare una comunità che non voglia disperdere la memoria di uomini che non si sono piegati, neanche di fronte alla violenza». «I documenti del processo Matteotti — aggiunge Claudio Modena, storico, autore di un volume su Matteotti, riformismo e antifascismo (Ediesse) — hanno sicuramente un interesse storico e la loro sede naturale sarebbe la Casa Museo di Fratta Polesine, paese natale di Matteotti. L'auspicio è che il fascicolo e la penna donata da Velia fossero donati alla Casa magari richiamando con una targa l'azione legale e politica dell'avvocato Magno».
Ma Marina Campana è delusa e vuole vendere documenti e libri «a chi sappia averne cura»: «La mia famiglia ha donato una collezione di conchiglie del valore di 300 mila euro alla Fondazione Aurum di Pescara e ora sono chiuse in una cassa in fondo a un magazzino. Se questi documenti e questi libri finiscono una cantina andranno a marcire. Il ministero per i Beni culturali mi ha indirizzato a un ufficio che non esiste. A Pescara nessuno si è mosso. Il mio interesse è che i sacrifici di questi uomini non siano dimenticati. Ma le cose donate a chi non ha cultura sono senza valore».

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