Un vescovo-madre

Dopo nove anni di episcopato, il card. Tettamanzi lascia la Cattedra ambrosiana





A Bresso, dietro il Parco Rivolta, al confine con la strada, si trova uno spazio vuoto, in marmo bianco, circondato da un cancelletto. Un rettangolo dalle linee severe eppur addolcite dalle dimensioni domestiche, dal colore stesso, candido, certo, ma tenue, e leggermente venato di rosa. È un limite sospeso, che presto sarà occupato da un monumento. Ai caduti? alle donne del Risorgimento? Ancora lo ignoriamo.






Tettamanzi festeggiato dai fedeli della Valbiandino. Sotto: con Madre Maria Vittoria Longhitano, parroca della Chiesa veterocattolica ambrosiana; in basso: in mezzo ai Rom del Triboniano.






Mentre, ieri, costeggiavo quell’opera in divenire, ricordavo l’ingresso a Milano del cardinale Tettamanzi, la difficile eredità che si accingeva a raccogliere. Ricordo quella partenza a piedi da Renate, la sua città natale, immersa nella Brianza lussureggiante e devota: terra di parroci, di oratori, di processioni. All’epoca, il prelato aveva già sessantotto anni e mi venne spontaneo compiangerlo un po’: “Poveretto, che fatica”. Ma non alludevo solo al disagio fisico. Era il peso morale che, in realtà, mi spaventava. Tettamanzi arrivava a dirigere la diocesi più grande d’Europa, retta fino ad allora dal “monumento” Carlo Maria Martini. So che quest’ultimo non amerebbe esser definito così; l’aura sepolcrale e fredda che comunemente associamo a tale vocabolo non rende giustizia a un principe della Chiesa dimostratosi pastore attento e solerte, vivo, “prossimo”. Eppure, pensando a Martini, viene quasi spontaneo. Nel senso migliore. Lo era per il tratto solenne, asciutto, grave e lieve della persona e dell’apostolato. Per il misticismo lombardo ed essenziale, lui nato ad Alessandria. Ripenso a Martini e vedo una marcia trionfale. Guardo Tettamanzi e lo associo al trotterellare un po’ ansioso del curato di campagna, che chiede permesso quando varca la soglia di casa. Una presenza familiare, anche troppo. Al punto, quasi, di non badarvi. Ma senza la quale ci si sente persi. Perché quella presenza lavora, è indispensabile. Se, come hanno scritto nel loro saluto i preti bressesi, il vescovo è anche madre, Tettamanzi è stato sicuramente una madre: operosa, ma discreta. Una che c’è sempre stata, e che al momento giusto appare come un’epifania. Tettamanzi e la fatica. Un’altra caratteristica che lo associa alle madri. Non solo gli toccava subentrare a Martini. Ma entrava in una Milano livida, frastornata, rancorosa e impaurita. A ridosso dell’11 settembre. Il senso dell’accoglienza nei confronti dello straniero, tipicamente meneghino, si era eclissato. L’altro, il diverso era ormai solo un nemico, di un’altra razza, addirittura d’una diversa umanità o – ciò ch’è peggio – di nessuna. La politica alimentava questo ritorno alla barbarie, anzi, lo ergeva a valore; altri brianzoli, di corta veduta e di fragile fede, brandivano crocifissi di legno per bastonare i crocifissi della società. E qualche vescovo, nemmeno tanto copertamente, li benediceva.


Erano i tempi dello scontro di civiltà, di Oriana Fallaci che dalla terza pagina del “Corriere” scagliava truculente invettive contro il nemico islamico. E qualcuna ne toccò proprio a lui, al nuovo arcivescovo, appena questi individui, che non mancavano di professarsi ad ogni occasione atei devoti (un assurdo logico prima che linguistico), realizzarono che non stava dalla loro parte.

Il parroco di campagna, erede d’una lunga tradizione di solido cattolicesimo, iniziò subito con la ricerca del dialogo con i musulmani e gli immigrati in genere. Innanzi tutto, con Dio. Tettamanzi era ed è uomo di preghiera, un mistico anch’egli, non di folgoranti lumi, ma della quotidianità, come la protagonista della dramma perduta. Ma non per questo meno profondo e, oseremmo dire, voraginoso. La preghiera è azione e Tettamanzi l’aveva compreso bene. La preghiera gli permise di vedere non in un’astratta entità, ma nella vita di ognuno, il volto di Dio. Fermo nella fede, non temeva quella degli altri, che anzi sentiva parte integrante della propria. Fu solo, disperatamente solo. Lo amavano le associazioni, non solo cattoliche; lo stimavano e vi erano affezionati i credenti di altre fedi e confessioni: penso non solo ai protestanti, ma pure alla piccola e nuova (per Milano) realtà veterocattolica, la cui presbitera è stata ricevuta in diverse occasioni dall’arcivescovo e ha concelebrato con altri ministri nel corso della settimana per l’unità dei cristiani. Ma la politica trionfante e aggressiva, e i potenti fondamentalisti lombardi, nutrivano per lui un odio inestinguibile. Cristianisti ringhiosi e sguaiati giunsero ad appioppargli l’epiteto, per loro sommamente ingiurioso, di “imam” quando auspicò la costruzione d’una moschea e d’un centro culturale islamico. La giunta comunale del tempo, dietro i sorrisi di circostanza, si guardò bene dall’ascoltarlo. In anni di sgomberi di campi rom, egli era lì, in mezzo a loro, a celebrare la Messa di Natale. Poi venne il caso Englaro. E nuove solitudini e amarezze per il nostro cardinale. Egli non approvava la decisione del papà di Eluana. Ma non gli uscì una parola di condanna nell’omelia ch’egli dedicò, pastoralmente, al senso dell’esistenza umana, e al termine della quale esortò, ancora una volta, alla preghiera. O meglio, alla contemplazione. Al tabernacolo. Ai cristianisti, analfabeti dei più elementari dettami del Vangelo, parve una posizione rinunciataria; e ignoravano che solo la dimensione contemplativa della vita (come, non casualmente, s’intitolava la prima lettera pastorale del predecessore Martini) può permettere ai nostri atti un respiro vasto, un segno che si configge e resta cristallino: roccia, guida.

Tettamanzi era un moralista, curava la pastorale familiare. Come un altro grande lombardo, Angelo Roncalli divenuto poi Giovanni XXIII, aveva in mente le riunioni umane delle sue valli, i padri, le madri, i nonni e la numerosa prole. L’amava; e, per questo, vedeva la famiglia includente. Lui, che considerava il divorzio una grande ferita per la società ancor prima che per la persona, fu il primo a pubblicare una toccante lettera indirizzata a chi aveva perduto quella felicità. E a chi, come pastore, avrebbe dovuto accoglierlo. I divorziati risposati – amava ripetere – non devono sentirsi fuori della Chiesa. In fatto di dottrina era intransigente, ma se le parrocchie hanno cominciato una pastorale per le famiglie disunite, lo si deve soprattutto a lui.

La felice intuizione della Chiesa “famiglia cellula della società” per Tettamanzi non rimase lettera morta o, peggio, occasione per inefficaci e perbenistici strali contro gli “irregolari”. Capì che la famiglia non poteva esser difesa solo a parole. Che molte si disfacevano, o non si componevano proprio, per una crisi sociale che si allungava nel nostro “ricco” mondo. Mentre qualche governante allegrone assicurava per l’Italia fiumi di latte e montagne di marzapane, Tettamanzi nel 2008 scriveva: “In questo Natale già segnato dalle prime ondate di una grave crisi economica, un interrogativo mi tormenta: io, come Arcivescovo di Milano, cosa posso fare? Noi, come Chiesa ambrosiana, cosa possiamo fare?”. Io-Noi. Se Martini si trovò ad operare in tempi di edonismo nascente, a Tettamanzi toccò un’altra fatica, quella di fronteggiare l’egotismo deflagrato, ormai in agonia, e perciò ancor più feroce e invasivo. L’Io, anzi l’Ego tanto celebrato, non poteva esistere senza il Noi, privo cioè di relazione. “Non è bene che l’uomo sia solo”: non per sé, ma nemmeno per il mondo ch’egli ha costruito a sua immagine. E l’uomo diuturno fu colto, questa volta, dall’illuminazione rovente, quel Fondo Famiglia-Lavoro che, destinato a famiglie e singoli colpiti dalla crisi economica, ha finora messo a disposizione quasi tredici milioni di euro e che continuerà a operare fino al 31 dicembre prossimo.

Due giorni fa, l’ultimo affondo: sulla questione morale. “In politica – ha denunciato – dai tempi di Tangentopoli non è cambiato nulla”. Troppo, decisamente, per certe orecchie foderate. “Non vedono l’ora che arrivi ‘quel’ giorno, i grandi elettori meneghini del centrodestra – ha scritto qualche mese fa una rivista on line. – aspettano con ansia il pensionamento, per raggiunti limiti d’età, di un vescovo mai vissuto come la propria guida spirituale. Mugugnarono quando Dionigi Tettamanzi aprì il Duomo, durante una messa dell’Epifania, alle comunità straniere in nome della multiculturalità, si irrigidirono quando prese le difese delle associazioni laiche e cristiane a sostegno dei diritti civili delle popolazioni romanì contro gli sgomberi e non nascondono tutta la loro irritazione ogni volta che il porporato alza la voce contro il degrado della politica”. Ora “quel” giorno è arrivato, Tettamanzi verrà sostituito dal vescovo ciellino Scola. Ma non ci s’illuda: la lezione di Tettamanzi non andrà perduta, perché s’innerva nella grande tradizione ambrosiana, di Ambrogio, di Carlo Borromeo, il quale, come si sa, fece un po’ di tutto: dalle scuole per ragazze povere ed ex-prostitute, alle case per l’infanzia, agli ospizi per i poveri. E bastonò i potenti.


Io, comunque, preferisco associarlo a un vescovo ancor più remoto, che già nel nome, con lui, condivideva la sollecitudine e la fatica: Materno, oggi ricordato da una chiesa e una piazza in Lambrate, periferia della città, angolo della storia. Respiro di Dio.



Commenti

Anonimo ha detto…
(La piccola e nuova realtà veterocattolica di Milano la cui presbitera è stata ricevuta dal Cardinale ecc...) è stata definitivamente chiusa. Questo per correttezza.

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