In mutande e in pantaloni



Due capi d'abbigliamento estremi. I primi ridotti all'osso, i secondi castigati per antonomasia (eppure, come scriviamo più sotto, qualche testa bacata è giunta a considerarli indecenti). I primi, non solo simbolici (alcuni disoccupati e precari della scuola hanno davvero protestato in questo modo); ma sicuramente anche segno d'una spoliazione, d'una perdita non solo del lavoro, ma della dignità. Ebbene in questi giorni, molti lavoratori, al Nord come al Sud, sono in mutande. Per lo più nel chiassoso silenzio dei media, in tutt'altre faccende affaccendati. "Devi attirare l'attenzione delle telecamere, altrimenti non esisti": frase che suona grottesca perché non esce dalla bocca di Fabrizio Corona, ma da uno degli operai della Esab di Mesero, alle porte di Milano, che da giorni, coi compagni, grida sui tetti - il Vangelo coglie sempre nel segno - la sua lotta e la sua resistenza ai licenziamenti. Il regime videocratico impone leggi ferree: tanto vale sfruttarle a proprio vantaggio, visto che le protezioni sociali si affievoliscono sempre più. Hanno creato anche un blog, Quelli del tetto. La rete sembra essere rimasta l'unica arma per far udire le voci libere e disperate.



Ieri è giunto un inquietante comunicato degli operai dell'Innse: "Stanno arrivando a diversi sostenitori della nostra lotta provvedimenti con multe da 2500 a 10.000 euro per il blocco della tangenziale avvenuto il giorno 2 agosto, il giorno in cui l'Innse era presidiata da più di 300 poliziotti", scrivono. "Lo riteniamo un colpo basso contro una mobilitazione che, sostenendo l'iniziativa diretta degli operai, ha portato al risultato che tutti conosciamo. Come insieme abbiamo resistito allo smantellamento della fabbrica, assieme reagiremo a questa azione intimidatoria". La notizia è circolata, ancora una volta, solo sul web. Leggendola, mi è tornata in mente un'antichissima canzone di Dalla, Le parole incrociate ("Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano"). Mi chiedo se davvero non siamo tornati al 1898, quando gli industriali si chiamavano ancora padroni e alle rimostranze dei lavoratori si rispondeva con le cannonate.


Voleva i pantaloni, hanno parafrasato in tanti. No, Lubna Ahmed Hussein voleva, e vuole, essere sé stessa. Anche lei, su altri fronti, a combattere una battaglia di libertà. Vinta. Non verrà frustata, non intende nemmeno pagare una multa. Simbolicamente, l'una e l'altra sarebbero la stessa cosa, una resa. E Lubna non vuole arrendersi. Anch'essa ha gridato sui tetti. I calzoni contrasterebbero la legge coranica? Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, poi si guarda la foto del "presidente" sudanese Omar al Bashir, quello delle stragi silenziate del Darfur, che solo due anni fa è stato ricevuto dalle alte cariche del nostro Paese e dal Papa, la si confronta con quella di Lubna, e non occorre aggiungere altro.


Da quelle parti c'è sempre stata, qui ha conosciuto un picco di recrudescenza: parlo della furia maschile [pochi giorni fa, in Sicilia, un branco di ragazzini ha brutalizzato una minorenne disabile, e contemporaneamente sono avvenute quattro stragi con vittime femminili all'interno di rispettabili famiglie, tutte compiute da uomini, n.d.A.]. E' sempre la stessa storia, il frutto venefico di un clima avvelenato, quindi non mi ripeterò. Per fortuna esistono altri uomini, che dietro i pantaloni hanno un cuore e un cervello, non solo un organo genitale. Ma rischiamo di perderli. Caspian Makan, fidanzato della celebre Neda Agha Soltan, si trova in carcere dal giugno scorso, come segnala Amnesty International, per aver gridato sui tetti il nome degli assassini della compagna. Una buona notizia, invece, arriva almeno per Sayed Parvez Kambaksh: è stato graziato ieri. Chissà se riuscirebbe a spiegarlo lui, al presidente golpista del Sudan e a tanti suoi zelanti correligionari, che nel Corano non c'è traccia di sottomissione delle donne. Per aver affermato questo, Sayed ha rischiato la pelle. Ma, in verità, non frega niente a nessuno. E uomini di questa sorta si trovano ormai nei luoghi più remoti e impensati. Quaggiù si soffre e si muore nel silenzio più sepolcrale.


Daniela Tuscano




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