Le occasioni perdute e ritrovate. Rileggere Pascoli

E’ forse inevitabile collegare quest’autore all’infanzia. Alla mia, segnatamente. Non posso esimermene, poiché fu il secondo poeta che incontrai, dopo Ungaretti (quello della Madre, non di “M’illumino/d’immenso”) e prima di Grazia Deledda, l’altra grande passione della mia gioventù. Nell’antologia - il “libro di lettura” - i versi di Fides spiccavano dietro un’immagine di bimba attonita, dagli occhi nerissimi e curiosi, immersa in un verde lussureggiante.


Come il vastissimo parco del mio collegio: mondo protetto, involucro coalescente, lontano dalle brutture e dalle violenze della realtà esterna, e cattiva. Un luogo che sarebbe piaciuto al Pascoli, così folto di siepi che il guardo escludevano e le suore candide, madri spirituali, spose d’un marito celeste. Giardini chiusi, fonti sigillate. Eravamo bambini e lui il cantore buono delle dolci ninnenanne, dei trepidi vagiti, delle umili e fragilissime nonnine… Inevitabile non associarlo all’infanzia, ho affermato. Sì. Eppure, errato.


Certo, Fides non aveva l’andamento solenne e austero della Madre ungarettiana, e ci coinvolgeva molto di più; ma come spiegare il senso d’inquietudine, di confuso smarrimento, di strisciante malinconia che mi assaliva dopo la lettura di quei versi?


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Percezioni vaghe e incomprensibili, ma reali.


Nel 1961 Pier Paolo Pasolini - che si laureò con una tesi su di lui - così scrisse a proposito del Nostro: “Non lo amo molto, Pascoli. Egli era un uomo arido, inibito, infecondo, ma a questo sopperiva con una vasta ispirazione […] linguistica. Tutte le esperienze innovative del nostro secolo, buone e cattive, hanno avuto origine in lui. Perciò egli è importante culturalmente. E, si noti bene, tutte le tendenze stilistiche, che si sono sviluppate dai suoi esperimenti - spesso rozzi e provinciali, sia pure - sono state tipiche dell’antifascismo culturale del Novecento. Un antifascismo puramente passivo: ma è già molto”.


Pasolini aveva ragione nel definirlo innovatore linguistico: chiaro, comunicativo, immediato, vicino alla sensibilità contemporanea, se non più a un mondo rurale scomparso. Ricorreva spesso all’onomatopea, che rende “internazionale” il linguaggio poetico: non per nulla il Nostro inseriva nei suoi testi molti vocaboli stranieri (come in Italy e The hammerless gun); espressioni disusate, per l’evocativo senso del mistero; il tutto in un periodo franto, dal ritmo ora cadenzato, ora sincopato, alla Debussy (ma perché non considerarlo, in qualche misura, un antenato dei nostri migliori cantautori?).


Tra gli aggettivi che Pasolini utilizzò per descrivere l’autore romagnolo, spicca l’ultimo, severo “infecondo”. Pascoli lo era anche fisicamente: pingue, molle, greve. Rintanato nella sua casa di campagna con l’inseparabile sorella Maria, cui dedicò diverse poesie (ma tutte o quasi “a margine” della sua produzione maggiore). Il segreto di Pascoli, ingenuo e perverso, resta tale: un desiderio celato, smorzato, sublimato.


Una falsa innocenza


All’inizio del Novecento l’Europa desacralizzata perdeva definitivamente i suoi valori millenari. Alle pressanti esigenze di nuovi soggetti sociali, che si affacciavano da protagonisti alla ribalta della storia, fascismo e nazismo opposero una reazione feroce in nome del passato. Furono movimenti anti-democratici, teorizzatori della divisione tra classi ed etnie, ovviamente bellicisti e misogini; o, per usare un neologismo molto efficace di Luce Irigaray, “uomosessuali”. L’inferiorità naturale della donna, sanzionata dalla legge fino a tempi recentissimi, cominciava a venir sistematicamente contestata, promettendo autentici sconvolgimenti di consolidati equilibri. Di qui la riaffermazione - belluina, benché vana - dell’ordine, della forza, e della sottomissione.


Il timido e impacciato Pascoli, anzi, il professor Pascoli, viveva più di altri le contraddizioni d’un mondo rovesciato, crudele, affascinante e incomprensibile. Il suo smarrimento era necessariamente anche sessuale: dopo le tragiche vicende che contrassegnarono la sua giovinezza, sognava di trascorrere la sua vita “soave/tra le sorelle brave,/presso la madre pia”. Una risposta tutt’altro che virile; ma, anche l’anelito a una vita attenuata, dove l’erotismo era apparentemente rimosso, perché incuteva paura, schianto, violenza. Altro che cantore dell’infanzia!


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Valida lezione


Fosse stato più consapevole, o coraggioso, il nostro poeta avrebbe potuto diventare un vero ribelle. Ma Pascoli non aveva la forza e, forse, neppure la possibilità - non nella sua condizione, non in quell’Italia umbertina - di trasformare la sua perversione in un elemento di lotta serrata alla società e all’ipocrisia della normalità, come riuscì a Proust e, ancor più, a Gide e a Virginia Woolf. Le sue aspirazioni restavano borghesi. Ma agiva da noi; e fu “già molto”. La parte più nobile dei nostri intellettuali preferì l’ambigua dolcezza del suo umanitarismo aprico alle muscolari fanfare mussoliniane; e fu “già molto”; sedusse Pasolini; e fu “già molto”.


Ogni cosa, ogni umile oggetto, situazione, persone divenivano per lui motivo di compassione, quindi di poesia. Precursore del minimalismo? Piuttosto, paritario: nel mondo malvagio e assurdo, il desiderio, l’aspirazione, l’illusione della bontà pure resta, in qualsiasi luogo essa si nasconda; sia pure in un animo vagolante e dubitoso. Non più divisioni nette fra bene e male: e fu “già molto”.


Così il Fanciullino garrulo e antico viveva nel cuore del poeta: e fu “già molto”; fu meglio; fu giusto.

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